Io sono stata quella bambina che parlava pure con i muri. Alberi, uccellini, animali di tutto il creato, coma San Francesco, mi aggiravo per il mondo, sussurando anche ai cavalli. Tanta era la mia voglia di comunicare, che superavo la mia timidezza e, anche con le gote in fiamme, parlavo con gli sconosciuti, disposta ad accettare le loro caramelle, pur di scambiare un punto di vista, un’opinione.
Io sono stata quella ragazza nota per le opere epistolari con chiunque sapesse leggere, pur di veicolare la storia della mia giornata ad un qualsiasi essere umano incontrato sul bagnasciuga, il tempo di scambiarsi il cap. Troppa era la voglia di parlare, ed al tempo delle interrurbane, lo facevo con la carta.
Io mi sono iscritta ad un corso di teatro, per essere più espressiva, estroversa e coinvolgente, nel racconto. Perché, se tanto dovevo stordire con le parole, tanto valeva farlo perbene. Ogni confronto era una pièce teatrale: senza pubblico pagante e appalusi finali, ma il bis lo facevo con piacere.
Parlo da sempre, ma ascolto anche con più piacere! Davo e ricevevo. A domanda, rispondevo. E la voglia di rispondere era proporzionata alla voglia di ascoltarla, quella domanda. Perché ascoltare mi ha sempre appassionato.
Dalla musica, al suono del vento fra le foglie. Dal suono di un clacscon ai battenti della finestra. Dai grilli alle note di una chitarra. Dal Come ti chiami a Ho voglia di te.
Sono stata un’ascoltatrice seriale ed una parlatrice d’altri tempi. Non mancavano mai argomenti. Non era mai troppo presto o troppo tardi. Ad una parola, un racconto, non dicevo mai di no.
E poi è arrivato quel giorno. Quello durante il quale, l’ostetrica ci disse che, al ritorno a casa dei nostri compagni, noi neo mamme avremmo letteralmente lanciato il neonato tra le braccia del maschio che ci aveva ingravidate. Dopo una giornata che aveva condensato uno stordimento di palle che manco in un anno solare, per l’incolumità del bebè, l’unica cosa era quella di passarlo come fosse una palla da rugby.
Con tutto il senso di sopravvivenza del mondo, mors tua- devo campà pur’ io, come una Kate Winslet qualsiasi, ci aggrappavamo con tutte noi stesse all’unico pezzo di legno galleggiante presente, che con l’acqua alla gola ci stavamo dalla mattina.
Poi, loro, gli amati pargoli, sono cresciuti. I nostri dolci, teneri, amatissimi figli, in quanto figli, hanno cominciato a fare cose da figli: massacrarci. E manco tanto in senso metaforico.
E così, anche all’epoca del massacro, sono arrivate le sette di sera e voi, a quella cazzo di ora, non ci dovete proprio rivolgere la parola!
E non ce ne frega un kaiser che “a me mi” non si dice. Perché il punto è che noi non vogliamo ascoltare più nulla alle sette di sera, manco un a, un me, un mi. Ma pure alle sei e manco alle cinque, in tempo di zona rossa ed arancione, cioè quando la banda è a casa tutto il giorno.
Ecco, facciamo che dalle cinque del pomeriggio sino all’alba, non vogliamo più ascoltare una parola. Non una sillaba. Non un suono. Manco un respiro o un singhiozzo.
Non ce ne frega un caxxo che ci dovete dire che c’è un incendio in casa, che i figli sono appena scappati o che sono sbarcati gli alieni o semplicemente come stiamo (che tanto, come stiamo, ci si legge fra le rughe delle ultime 24 ore).
Non esiste alcun argomento che abbia il diritto di insinuarsi nelle nostre orecchie, a quell’ora. Non vogliamo rispondere, non vogliamo raccontare, non vogliamo ascoltare.
E che si estinguano pure gli uccellini a cui parlavo. I ragazzi a cui scrivevo. A me non mi devi proprio rivolgere la parola, dopo una certa ora.
Siamo mamme: le bambine, le ragazze, le donne curiose, che amavano ascoltare il suono delle onde e parlare del senso della vita nel alle due di notte, come all’ora del tè, sono morte.
Ad una certa ora siamo esaurite. Non ci fate incazzare.
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