Il mazzo che si fanno le mamme non ha pari

Ieri sono tornata a casa verso le 18.30 con le suole delle scarpe sporche di fango. In mano avevo il monopattino che mia figlia aveva deciso di non usare già da metà strada, lo zainetto con le lenzuola della scuola e la sacca con il libro della biblioteca.

Ho passato il pomeriggio a fare su e giù. Vai a prendere una, le fai mangiare la merenda, corri a prendere il regalo per una festa di compleanno, in tempo perché non suoni la campanella dell’altra. Prendi l’altra, corri al parco per la festa. Fai su e giù tra l’animatore della festa ed il tavolo delle pizzette, che sennò lo fanno le tue figlie e le perdi di vista, perché vanno ovviamente separate ed è già buio.

Una vuole l’acqua, l’altra si sporca la giacca con il succo di frutta. Ad una cade un dente che non vuole assolutamente perdere, all’altra scappa la pipì che però non esce quando la porti dietro al cespuglio.

Entrambe vogliono un piatto con la torta e dopo tre minuti mi ritrovo con due piatti di torta quasi intonsa, in mano, mentre faccio la giocoliera con le forchettine che stanno cadendo e il fazzoletto per asciugarle il naso.

Durante il tragitto di ritorno, una comincia tutte le frasi con un “Non è giusto”, l’altra piange ma non parla e non ti fa capire il perché. Una cade, l’altra spinge.

Vedo in lontananza il palazzo di casa ma sembra come quegli incubi nei quali le gambe sono pesanti e non arrivi mai alla meta. Una si ferma, l’altra si arrabbia. Una strilla, l’altra si lamenta. Fino a quando non sbotto, e le urla mettono fine a capricci di cui sfugge il senso, nonostante lo sforzo.

Il giorno prima, prima di andare a prenderle a scuola, passi in lavanderia a lasciare tre chili di camicie e vestiti che non sei riuscita a stirare, perché in fondo anche tu hai diritto ad addormentarti davanti alla tv, la sera. Dal sarto a lasciare dei pantaloni. Oltre a quelle buste, avevi una più grande con dentro gli zainetti per la scuola di inglese e le merende per le bambine. Per una vita ti hanno perculato perché eri minuta eppure sollevi il mondo con quelle braccia esili. Assurdo eh! Hai due braccia e due mani come tutti, eppure, le giornate ti strizzano in modo tale che te ne devono uscire almeno altre due.

E poi le vai a prendere a scuola, e poi le porti ad inglese. Lanci una, in tempo perché non suoni la campanella dell’altra. Il tempo di assicurarti che mangi un boccone e beva un sorso d’acqua, e lanci anche l’altra.
Dopo mezz’ora devi riprendere la prima, per cui non fai in tempo a tornare a casa e leggi mail in piedi, in mezzo alla strada, maledicendo il settore malato nel quale hai investito tempo, energie, professionalità e risorse, negli ultimi anni. Prendi una, aspetti l’altra. Con i capelli gonfi di umidità ed il fondotinta a macchie, perché la mascherina, ogni volta che la metti su, se ne prende un po’.

Sorridi, sorridi sempre. Ascolti, o almeno cerchi di farlo, entrambe. Interagisci, sperando di aver capito entrambi i discorsi, ad ogni domanda. E cosa avete mangiato. A scuola tutto bene. Con chi hai giocato. Cosa avete imparato oggi. E prendi in braccio la piccola, e la prendi per mano, ed alzi la voce, quando arriva davanti al semaforo.

Vedi in lontananza il palazzo di casa ma sembra come quegli incubi nei quali le gambe sono pesanti e non arrivi mai alla meta. Una si ferma, l’altra si arrabbia. Una strilla, l’altra si lamenta.  Perché, ad un certo punto, comunque sia andata la giornata, scatta un’ora in cui tutto si ripete.

Come sarà oggi. Come sarà domani.

E va bene cosi. Perché speri di infondere amore, sicurezza, certezza, fino a quando potrai e fino e ancora per qualche anno, fino a quando andranno e torneranno a casa con te. Speri di fare il meglio. Speri che i tuoi perenni sorrisi, la pazienza coriacea, il sincero interesse per tutto quello che ti raccontano, il non perdere il filo delle cose da fare, da reggere, da portare, ritirare, soffiare, acchiappare, sia il seme per qualcosa di buono. Per loro.

E ne vedi altre come te. Fantasmi alle sette di sera, mentre spingono passeggini, portano la spesa, reggono cappucci mentre attraversano la strada, per evitare che qualcuno decida di correre all’improvviso. Molte sorridono. Altre stringono i denti. Alcune cantano, raccontano filastrocche. Altre sono con la testa altrove: a quello che devono fare, dovevano fare, avevano in mente di fare.

Per i figli fai tutto. Sopporti delle fatiche fisiche e psicologiche senza pari. Anche se non ne hai cinque di bambini, la giornata è sfiancante, sfibrante, altro che strappare lungo i bordi, tu non ce l’hai quel tempo di fare filosofia. Tagli con forza, e senza forbici, perché la vita ti sta insegnando che anche in mancanza degli strumenti, devi arrivare alla meta. Devi portare la giornata a casa.

E quando senti che fare la mamma non è un lavoro, non sai se piangere o se ridere. Fare la mamma a tempo pieno fa mamma pancina, una che non ha studiato, non aveva un cazzo da offrire, una competenza, una professionalità, ma solo la suola delle scarpe da sporcare con il fango, le braccia per gli zaini e i capelli che trattengono l’umidità.

Perché, è vero, non è “davvero” un lavoro non è manco pagato (anche se a me arrivano delle proposte indecenti sul lavoro “vero”) non c’è un contratto (tacciamo anche qui) ma il mazzo che ti fai, non ha pari.

Non ha pari. Non ha pari. Non ha pari. 

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